A un certo punto ci venne incontro un signore bruno, quasi ricciuto. Sorriso splendente. Accento vagamente comasco. Ospitalità fatta persona.
GIA’ IL GIORNO DOPO ALESSANDRO LO AVREBBE SOPRANNOMINATO “BABBO LOCANDIERE”.
Ci magnificò e ci mostrò le camere migliori del… castello. In effetti erano bellissime, da vera dimora nobiliare. LUI LE CHIAMAVA SUITES.
Ora io, non so, parte della mia memoria potrebbe essere inventata o contaminata, ma io ricordo una culla a forma di slittino trainato da un cigno.
Poi, mentre riaccompagnandoci nella Stube, decantava le gesta venatorie del figlio, cacciatore di cervi nella valle, io immaginavo una bruma in discesa tra gli alberi a velare gli animali in fuga. Sarà stata proprio quella la volta che per cena ci offrì una carne nera, guarnita con crema di more (che io non gradii, anche perché commiseravo l’animale ma mi guardai dal dirlo). O forse cenammo con i classici del luogo, più da erbivori: zuppa d’orzo, rösti con uova fritte e funghi e, immerso in una coltre fumante di salsa alla vaniglia, un megastrudel di mele in cui uva passa e noci non andavano per conto proprio ma rimanevano sofficemente ancorate all’impasto.
Il signore bruno raccontava di aver fatto un corso di formazione in GERMANIA E DI ESSERE DIVENTATO CUOCO PROFESSIONISTA, cuoco con tanto di cappello. Intendo il copricapo dei cuochi: quello candido, gonfio e alto, che in Italia sarebbe parso una buffonata ma lì doveva essere una cosa seria. E COSI’ INCAPPELLATO, ci introdusse nella sua cucina tutta d’acciaio per mostrarci il modo fulmineo con cui affettava le patate su una padella speciale per il rösti.
Il mattino seguente al tavolo della colazione troviamo di tutto: ci sono, in grandi flaconi di vetro, confetture tutte “fatte in casa” da spalmare su pane di varie dimensioni. Paninetti ingemmati di semini (di papavero, di girasole, di lino, di zucca, di sesamo) e altre fogge di pane più grande: al malto alla birra alle noci alle castagne. Spalmo frutti di bosco che sembrano aver subito una metamorfosi minerale: il ribes rosso in rubino, la mora in granato, il lampone in topazio rosa, sempre che esista il topazio rosa. La migliore, dalla parvenza di miele rubinescente, è all’HOLUNDER. Chiedo gentilmente che significhi la parola HOLUNDER, scritta su un foglietto incollato al flacone. Risposta: SAMBUCO. E certo non mi azzardo a chiedere cosa sia il SAMBUCO.
Il signore bruno si vanta dei suoi cavalli, dice che li usa per far fare dei giri ad alcuni clienti dell’albergo. Ci carica su una jeep e ci guida dai cavalli che tiene in uno spazio recintato, un po’ discosto dal villaggio. Trasecolo appena li vedo perché sono completamente immobili, non dico che mi aspettassi belve scatenate ma… almeno un tantino di scalpito nell’ansia di valicare i recinti.
PIU’ CHE CAVALLI SEMBRANO STATUE DI CAVALLI, non fosse per quel minimo movimento che fanno con le code spazzolando l’aria a destra e a sinistra per trovare un po’ di tregua da certi insettoni che li molestano (e che ritornano più agguerriti che mai, a ronzargli intorno e a insolentirli non appena le code si fermano).
Ma trasecolo ancora di più quando di punto in bianco il signore bruno dice che un altissimo numero di suicidi opprime la zona. Ma come???? LA GENTE VIVE IN UNO DEI POCHISSIMI EDEN RIMASTI E S’AMMAZZA!
RIPENSO ALLE ALPI DI BERNHARD e comunque, a prescindere da tutto, a quanto sia poco reattivo, verso il mondo ed una vita infami, lasciarsi gettare di propria volontà in una fossa, e a quanto possa essere poco gradevole per molti avere sempre addosso queste montagne così spigolosamente maestose, così impervie, così grifagne, così frastagliate, così aguzze, così rocciose, come è facile che sia in questa valle, così irte di detritiche ruine, così incavate da estesi corpi di frana, simili a quello che, guardando verso il BERNINA, nella parte settentrionale del villaggio, si erge in tutta la sua minacciosità proprio di fronte alla mia casa futura: casa AURORA.