Joseph Berglinger 4

Testo originale del Joseph Berglinger con quadretto scoiattolo sul fondo

Pensava: “Buon Dio! Questo è quel mondo? E’ tua volontà che io mi mescoli alla massa e prenda parte alla miseria comune? Sembra proprio di sì. In fondo è come predica mio padre, che dovere e destino dell’uomo sia di unirsi agli altri prodigando consigli e elemosine, fasciando ferite ripugnanti e guarendo brutte malattie. Una voce di dentro mi grida: tu sei nato per un fine più alto e più nobile!”.

Con simili pensieri si torturava a lungo e non trovava via di fuga; ma ecco, quelle immagini ostili che parevano trascinarlo giù nel fango di questa terra, erano sparite dalla sua anima e il suo spirito tornava a volteggiare libero nell’aria. A poco a poco maturò la convinzione che Dio lo avesse destinato a diventare un grande musicista. Talvolta credeva che il Cielo lo avesse prescelto per riscattarlo dalla miseria sofferta in gioventù, elevandolo agli splendori di una più alta condizione. Molti riterranno romanzesca e inverosimile la storia che racconto, ma è la pura verità: Joseph nella sua solitudine e nel tormento del suo cuore si prosternava implorando Dio di farlo diventare un artista di pregio al cospetto del Cielo e della Terra. E nel tempo in cui il suo cuore, fomentato da inquiete immagini, si trovava in potente ebollizione, compose parecchie piccole poesie che descrivevano il suo stato d’animo o che lodavano l’arte dei suoni e con grande gioia le mise in musica, ma in suo modo infantile e appassionato, senza conoscere le regole. Ne è un esempio la seguente preghiera rivolta alla Santa che è venerata come protettrice dei musici:


Guarda come sconsolato e dolente

Giaccio nella cameretta silente

Santa Cecilia!

E come sorvolo poi la terra intera

Per prosternarmi innanzi a te in preghiera…

… Canta, sii al mio fianco.

I tuoi spartiti che muto conservo

Del cui incanto in segreto son servo

Al mio spirito infondono ebbrezza.

Nei sensi Angoscia non infierisca

La tua voce in cielo mi rapisca.

Canta e sii per il cuore una carezza.

Le corde dell’arpa tendi come fili,

Appendivi le mie dita sottili

In modo che il concerto si sprigioni.

L’intreccio dei miei suoni in mille cuori

Sparga incanti, malie, soavi ardori

In modo che tutto ancora ne risuoni.

Oltre la maestà di un corale

Tra gli inni tonanti della cattedrale

Un sublime Gloria

Potessi a te e a tutti i beati tributare

Migliaia di credenti ristorare,

Santa Cecilia!

Schiudimi gli antri del cuore umano

Affinché delle anime io diventi sovrano

Attraverso la forza della melodia;

E il mio spirito il mondo attraversi,

Armonizzi in giro per gli universi,

Inebriandosi di fantasia.


Durante un intero anno il povero Joseph nella sua solitudine meditava su un passo che avrebbe voluto fare. Una forza travolgente sospingeva il suo spirito verso la magnifica città che considerava il suo Eden, perché lì aveva vissuto ardendo dal desiderio di apprendere la sua arte dai fondamenti. Ma i suoi rapporti con il padre erano tali da stringergli il cuore.

Egli, infatti, aveva ben notato che Joseph non si applicava con serietà e dedizione alla scienza medica e lo aveva quasi abbandonato a se stesso trincerandosi nel suo malumore che diventava con l’età sempre più forte. Non si curava quasi più del ragazzo, il quale tuttavia non perdeva il suo stato d’animo infantile e combatteva ogni giorno contro la propria inclinazione ma non aveva il coraggio di svelare al padre ciò che avrebbe dovuto e che non poteva reprimere.

Per tutto il giorno si tormentava ponderando una decisione dietro l’altra ma non poteva risalire da un terribile abisso di dubbi, le più ardenti preghiere non aiutavano. Di questo suo stato quanto mai triste e penoso sono testimonianza le seguenti righe da me trovate tra le sue carte:


Cosa dà l’assalto a ogni mia traccia

E mi stringe nelle sue calde braccia

E con sé lontano mi trasporta

Della casa paterna oltre la porta?

Dovrò senza mia colpa tormentarmi?

Dovrà la tentazione sopraffarmi?

Dio da Dio, per il tuo santo dolore

Puoi placarmi le angosce del cuore

E concedermi la rivelazione

Affinché io entri nella Riflessione?

Puoi indicarmi il dritto sentiero

Guidando saldamente il mio pensiero?

Se non mi elevi a Te da questo fondo

O non mi accogli nella cuna del mondo

Dovrò a una forza arcana soggiacere

E nell’angoscia espormi al suo volere?

Sfidare le forze oscure dell’inferno

Che mi separano dal fianco paterno!


La sua angoscia divenne sempre più forte; più forte il richiamo tentatore della magnifica città.

Ma il cielo non l’avrebbe aiutato, pensava, non avrebbe inviato alcun segno? Il suo strazio culminò il giorno in cui, dopo una lite domestica, il padre lo redarguì in modo inconsueto (e da allora lo avrebbe trattato sempre con freddezza); comunque ormai era deciso: a tutti i dubbi e a tutte le incertezze chiuse la porta, non ci voleva più pensare, la Pasqua era vicina, l’avrebbe festeggiata in casa e poi sarebbe andato via nel vasto mondo.

La Pasqua era passata. Aspettò il primo bel mattino in cui lo splendore del sole sembrava irradiasse un incantesimo di luce e uscì di casa presto come al solito, ma stavolta non ritornò. Attraversò gli stretti vicoli della piccola città e ovunque guardasse gli pareva di balzar su nel cielo aperto. Una vecchia parente lo incontrò dietro un angolo e gli chiese: “Così mattiniero, cugino! Dovete comprare verdura al mercato?” “Si, si!” esclamò JOSEPH sovrappensiero e corse, tremante di gioia, verso la porta della città.

Appena ebbe raggiunto uno stretto sentiero in mezzo a un campo, sentì calde lacrime scorrergli e si disse: “devo tornare indietro?” ma corse avanti come se i talloni gli bruciassero e continuò a piangere, quasi volesse fuggire il proprio stesso pianto.

Attraversò qualche villaggio sconosciuto, si imbatté in qualche viso straniero: l’estraneità del mondo lo rinfrancava facendolo sentire più libero e più forte, quand’ecco! Dio onnipotente! Che meraviglia! Vide ergersi le torri della magnifica città.